Intervista a Demetrio Paolin: sulla la concezione di scrittura come idea di chiarezza

Demetrio, vorrei ringraziarti per aver trovato il tempo di fare chiacchierata, che poi trascriverò a uso dei giovani padawan della newsletter. Qualche anno fa, quando ancora non ti conoscevo, ho letto un tuo libro pubblicato da LiberAria: Non fate troppi pettegolezzi. Il libro parlava di Pavese, Primo Levi, Salgari e Lucentini, quattro autori torinesi che sono accomunati anche dal suicidio. Mi interessava quella questione, anche perché Primo Levi è stato un autore centrale nella mia formazione. Vorrei sapere perché hai scelto questi quattro autori, e se tra questi ce n’è uno che è stato centrale nella tua formazione.

 

Ho scelto questi quattro autori un po’ per causalità, nel senso che mi sono reso conto che questi autori mi piacevano. Li ho letti in momenti diversi, ad esempio a Salgari sono arrivato tardi: non ero il tipico ragazzo che ha letto i romanzi di Sandokan quando aveva dodici-tredici anni; l’ho letto quando ne avevo ventisette-ventotto. Penso di aver avuto un’esperienza di lettura molto diversa rispetto a quella dei miei coetanei.

Quindi sono quattro autori che ho incontrato in momenti diversi, tutti di Torino, dei quali ho frequentato i luoghi in cui hanno vissuto; e questo in un certo senso mi ha toccato. Per esempio, mi ha colpito che il piccolo bar in Piazza Vittorio, dove andavo quando ero ragazzino, era praticamente sotto il luogo dove Lucentini sì era lasciato cadere; proprio lì in quel cortile.

Per andare a lavorare passavo sempre davanti la casa di Primo Levi, e la mia prima redazione giornalistica stava di fronte la casa delle zie di Pavese. Poi Salgari si è ucciso sul lungo Po, vicino al parco del Michelotti, che era uno dei posti dove andavo con mamma e papà quando ero piccolo, perché c’era lo zoo.

Questa contemporaneità di situazioni mi ha fatto provare delle emozioni strane, e mi ha indotto a un ragionamento in cui vedevo il loro gesto estremo come parte del testo, come qualcosa da scrivere.

Levi è stato l’autore di maggiore impatto nella mia esistenza di autore, è stato una presenza costante nella mia formazione. Credo che la mia lettura attenta di Levi sia iniziata intorno ai vent’anni, ma da allora fino a oggi lo ho letto ogni anno, soprattutto Se questo è un uomo, ma anche I sommersi e i salvati.

È l’autore a cui devo la concezione di scrittura come idea di chiarezza. 

 

Una delle mie ossessioni è la chiarezza, cioè essere chiaro quando scrivo, far sì che chi mi legga abbia sempre davanti a sé, nitido, ciò che voglio dire e il modo in cui voglio dirlo. Se sto descrivendo delle azioni o dei sentimenti voglio che sia chiaro quello che voglio comunicare, cosicché il lettore possa fare il suo viaggio. 

Sai, quando hai più o meno diciassette-vent’anni vuoi scrivere e diventare uno scrittore famoso, o qualcosa del genere. Sei molto attratto da scritture tra virgolette maledette, o scritture del limite. Penso a Rimbaud, penso a Baudelaire, penso ai grandi poeti maledetti: questi scrittori che vogliono comunicare qualcosa che è assoluto.

All’inizio sei solo un apprendista stregone, non sai cosa fare; ti danno degli strumenti che non sai come usare, quindi scrivi delle cose che risultano così incomprensibili da essere brutte, o tenti qualcosa di più grande di te e che quindi non sai gestire. 

Quante volte a vent’anni inizi a scrivere un romanzo o un racconto e poi non sai andare avanti? Mi dicono spesso: Eh, dopo quattro pagine non so più che fare. Per forza rispondo io, perché ti sei spinto troppo in là rispetto alle gambe che hai. Come dire, prima di fare il Giro d’Italia magari dovrai fare venti chilometri, poi trentacinque, poi quaranta e alla fine duecento chilometri. Ci vuole allenamento, non puoi partire e dire: Ok, oggi faccio la Milano-Sanremo.

 

Levi è quello che mi ha detto: Ci vuole chiarezza. Lui diceva: Non esiste niente che non sia comunicabile, il problema non sono le cose indicibili, ma come le dici. Quindi se si vuole scrivere bisogna fermarsi, ragionare, imparare a usare la lingua e studiarla bene.

Levi diceva che quando scriveva aveva sette dizionari intorno a lui: aveva il Tommaseo, che è un dizionario etimologico storico, perché gli piaceva capire se una parola era ancora adatta come lo era nell’Ottocento. Poi ne studiava l’etimologia, qual era il suo uso comune, quali erano i sinonimi o contrari. Capisci cosa dico, una parola non vale l’altra.

 

Questo secondo me vuol dire fare un vero apprendistato della lingua, della chiarezza; che nel periodo degli anni Novanta era particolarmente più urgente, perché a quel tempo c’era un po’ la mitologia che la scrittura dovesse essere eccessiva, strabordante. Invece a me piaceva ricercare la chiarezza, anche se molti pensavano che la chiarezza fosse semplicità, e la semplicità tendesse al banale.

 

Studiando Levi mi sono reso conto che più una frase è semplice da leggere, più questa frase diventa complessa da spiegare, cioè da restituire quando fai una critica o un’analisi del testo; in questo modo scrivere diventa ancora più difficile.

Mi spiego, tu dici: Questa frase io l’avrei scritta così. Che ci vuole! Basta mettere un soggetto, un verbo, un complemento oggetto e due aggettivi. Ma poi cominci a ragionare e pensi: Guarda queste parole come sono perfettamente incastrate, come una non vuol dire l’altra, e quindi capisci che quella frase è arrivata, è finita. È questo mi affascina, è una cosa che mi attrae molto.

 

Adesso mi sono allontanato dalla scrittura di Levi, non scrivo come lui, neanche come impostazione di frase, neanche come sintassi; sono più per una scrittura ampia è complessa. Però mi rendo conto che questo apprendistato su Levi mi è servito, perché anche se ora scrivo una frase complessa non ho smesso di chiedermi: Questa frase è chiara? Questa complessità è chiara? E se non mi convince torno indietro e la riguardo, ci ripenso, magari aggiungo. Perché quando studiavo mi dicevano: Taglia di qua e taglia di là, come se tagliare fosse l’unico modo di aggiustare un testo. Ma non è così, non è assolutamente detto che tagliando venga meglio. Ci sono delle cose che vanno aggiunte; penso che lo veda anche tu, nel tuo lavoro… lavoriamo su certi testi che ti fanno dire: No, qui devi allungare, non perché è brutto ma perché non basta.

Me ne rendo conto quando leggo le descrizioni delle esperienze. Se si vuole raccontare di una camminata in montagna bisogna poter percepire la fatica, non mi basta che il personaggio dica: Che fatica! Sì, lo dice, però è ovvio che hai esagerato con l’economia, perché così non la sento la fatica. La fatica deve sentirsi nella frase, nelle immagini che descrivono il sentiero che sale, che cresce. Non so, si può far indugiare il personaggio sulla vegetazione, sulle pietre; ci sono tanti modi per comunicare la fatica, e uno di questi può essere, ad esempio, un’attenzione al salire, alla descrizione della salita.

Molti mi dicono: Sì, ma la descrizione così diventa ornamentale. Ma è qui che deve essere bravo lo scrittore, o no? Se sei uno scrittore devi saper rendere una descrizione utile alla narrativa, non solo ornamentale.

 

Sai, negli anni Novanta ero una bambina, e quando avevo otto anni i miei genitori mi portarono in vacanza ad Amsterdam. Io, per quanto riguarda il mio lavoro, ho avuto tre illuminazioni. O, meglio, tre rivoluzioni copernicane. La prima è stata quando avevo otto anni, appunto sono andata ad Amsterdam e ho visitato la casa di Anna Frank: quello che mi impressionò non fu solo la lettura del diario, fu lo scoprire che lei non lo aveva solo scritto, ma anche riscritto. Aveva scritto una versione del diario e poi l’aveva editata. Forse lì c’era il germe della mia fascinazione per l’editoria, perché questa idea che lo avesse riscritto mi fece davvero impressione: intendo il fatto che le cose non vengano solo scritte ma anche riscritte, che vengono riformulate per il lettore.

Per esempio nella versione A ci sono molte interlocutrici, mentre nella versione B Anna decide di sostituirle con Kitty, dunque con il Lettore.

Mi colpì molto il fatto che una ragazzina di tredici anni avesse fatto questo enorme lavoro di ripensamento sulla sua scrittura, e su di me ebbe una forza dirompente. Come lo ebbe la lettura di Se questo è un uomo, per lo stesso fatto: perché non era una delle tante memorie che parlavano dell’esperienza della Seconda guerra mondiale, testi che trovi nella sezione di storia o di memorialistica, non era un libro-documentario, era un testo narrativo. Pensa solo al capitolo in cui si parla di Dante, dell’Ulisse di Dante. Invece c’è questa convinzione di leggere Se questo è un uomocome se fosse solo una testimonianza, mentre in realtà c’è tutto un lavorio romanzesco dietro.

A un certo punto della mia adolescenza mi resi conto che nella mia famiglia c’erano stati dei sostenitori del fascismo, mi resi conto che io non ero la “nipote dei partigiani” (in questo paese sembra che siamo tutti nipoti di partigiani). Nel passato della mia famiglia c’era la colpa, e io sentivo questa colpa su di me, come se io ne avessi ereditato una parte.

Quando ho letto il tuo primo romanzo pubblicato con Voland, mi interessò il fatto che avessi provato a raccontare la colpa non attraverso una storia dell’olocausto dal punto di vista della vittima, ma attraverso gli occhi di un figlio delle SS. Questo è interessante, perché quando si avvicina il Giorno della memoria, le librerie si riempiono di libri che sono un costante edulcorare il male e le colpe, romanzetti intorno a storie quasi buonistiche. È una cosa che mi ha sempre fatto arrabbiare perché questa è la morte del valore testimoniale. Quindi ti volevo chiedere com’è che ti è venuto in mente di scrivere quella storia, che parla di un figlio di un SS?

 

In realtà l’idea era quella di lavorare sul fatto che essere vittima non ci esime da essere anche persone cattive: volevo uscire dal paradigma che la vittima è buona, perché noi abbiamo quest’idea che l’agnello sacrificale non può che essere buono.

Mentre lavoravo su Primo Levi mi sono reso conto che lui parla spesso di quest’ombra che ha il sopravvissuto, di quest’ombra in cui non puoi negare di essere stato cattivo, di essere in qualche modo colpevole di qualcosa.

 

Perché chi non si è adeguato al campo non è sopravvissuto…

 

Esatto, perché chi ha esperito fino in fondo il campo, cioè chi ha fatto esperienza profonda del campo, e potrebbe testimoniare come vittima perfetta, non può farlo perché non c’è più, la sua testimonianza è l’assenza.

Invece chi è rimasto deve per forza fare i conti col fatto che è vivo.

Domenico Scarpa, un critico, parlava proprio di questo, del male di sopravvivere dei deportati.

Quando ho cominciato a immaginare un deportato che avesse una colpa, ho iniziato a immaginare anche cosa volesse dire per un figlio ereditare quella colpa.

Mi ricordo un giorno che ragionavo con Bruno Vasari, che è stato un deportato. Diceva che quello che mi stava raccontando era un’eredità che doveva farmi male. Mi ricordo che diceva: Quando ti dico queste cose devi proprio starci male, quando io ti parlo delle ferite, dei corpi e delle bastonate e poi te ne torni a casa, tu devi starci male, devi avere malessere.

Quell’eredità mi ha lasciato certamente qualcosa di positivo, ma è stata una tortura.

Tornando al romanzo, se da un lato avevo questo deportato con una colpa, mi piaceva anche ragionare sull’idea dell’eredità come lascito negativo. Quindi ho cominciato a immaginarmi che cosa volesse dire per un figlio avere un padre che fosse stato un aguzzino, un SS, e soprattutto un aguzzino che non avesse mai rinunciato a esserlo, che non avesse mai smesso di esserlo, anche dopo.

Non volevo scrivere uno di quei romanzi che dicevi prima, cioè quei romanzi che escono il 27 di gennaio. E ti dico di più,  dissi all’editore: Questo libro può uscire anche ad agosto, ma non intorno al 27 gennaio. Poi uscì a marzo, proprio al limite per lo Strega, perché Voland voleva presentarlo allo Strega.

 

Quando leggi Primo Levi non sei mai consolato, anzi ti inchioda anche alle colpe che non sono tue, alle colpe dei tuoi padri e della società che ti ha prodotto. La colpa non deve essere sminuita, noi viviamo in un mondo in cui la colpa viene sminuita ogni volta, invece la colpa ha un valore, essere colpevoli ha un valore filosofico, umano; narrativamente ha un grande valore essere colpevoli. Perché se il tuo personaggio è colpevole è un personaggio tragico, e sostanzialmente la tragedia è uno dei motori narrativi più potenti che abbiamo.

Chi è che non vorrebbe un personaggio tragico nella sua narrazione? Ma noi vogliamo abolire la tragedia, la nascondiamo, l’edulcoriamo. E allora inventiamo il sarto di Auschwitz e la bambina che leggeva i libri di Auschwitz. L’importante è che ci sia Auschwitz, la colpa, il male e il dolore, e poi una cosa che la addomestica: la bambina che legge, il prigioniero e il bambino con il pigiama a righe. L’importante è che ci sia qualcosa che mi dica vabbè, c’è stato Auschwitz ma il sarto si è salvato; ha sofferto ma state tranquilli, ha vinto il bene.  

Quando ho scritto Conforme alla gloria ho voluto fare dell’altro, venivo da certe esperienze personali e avevo parlato con persone la cui colpa non era redimibile.

 

C’è un valore nel dolore e nella tragedia – come diceva Aristotele – un valore catartico, però è catartico se la tragedia viene davvero messa in scena, se abbiamo il coraggio di mettere in scena l’indicibile. Come i Greci, che durante le festività sacre mettevano in scena il matricidio, il parricidio, l’incesto. 

Un’altra cosa che mi interessa tanto dei tuoi libri è la presenza della tradizione biblica: io non sono cattolica, né vengo da una famiglia effettivamente cattolica, però da ragazza sono stata a lungo scout, e di conseguenza ho frequentato molto la Chiesa. Non mi dispiaceva, anzi, mi interessava la Bibbia, ma più dal punto di vista narrativo che religioso, perché ci sono storie nella Bibbia che leggo quasi con commozione.

Tu hai scritto quest’altro romanzo che in realtà racconta qualcosa di indicibile, ovvero la morte di un bambino. Io ho due bambini, e faccio un’enorme fatica a leggere testi così perché tendo a negare alla mia immaginazione la possibilità che possa accadere qualcosa del genere. Hai scritto la storia di un Demetrio, che curiosamente ha il tuo nome, che torna a casa perché il padre gli ha detto che c’è una malattia che gli sta ammazzando gli alberi, e tornando a casa ritrova la tomba di questo bambino; il tutto con delle citazioni appunto profetiche, con delle note della Bibbia.

Ti confesso che mi sono divertita molto a leggere le recensioni su Amazon, sono delle recensioni un po’ strane. In alcune ti additano come “inutilmente sofisticato”, in altre dicono che hai scritto un testo sciatto anche se tu nel libro citi spesso la Bibbia.

 

Che poi il latino della Bibbia non è mica Tito Livio o Cicerone, ma molto meno. La traduzione di Girolamo non ha nulla a che vedere con la grande classicità. E bisognerebbe capire cosa vuol dire sciatto, anche se poi il lettore ha tutto il diritto di esprimere il suo parere.

Ma tornando al discorso di Anatomia di un profeta, credo che sia stato un libro sfortunato perché è uscito il 12 marzo, cioè il giorno del lockdown. 

È stato un libro pubblicato da un editore coraggioso. Sai, scrivere un libro così può voler dire non pubblicarlo, è un libro forte. Tutto sommato io mi metto alla scrivania e scrivo quello che voglio, non mi pongo il limite di rispettare le leggi del mercato o dell’eleganza. Però mi rendo conto che questo può voler dire non pubblicare. Quando ho dato Anatomia di un profeta a Voland non pensavo che lo pubblicassero, e quando mi hanno detto che lo pubblicavano ho pensato: Ma sul serio? Soprattutto perché so che Daniela Di Sora è molto attenta al secondo libro di un autore, vuole che ci sia un percorso e che sia evidente l’evoluzione e la crescita dell’autore. Quindi l’idea che pubblicasse questo secondo libro per me è stato un investimento di fiducia sulla mia capacità autoriale. 

Il coraggio editoriale è stato duplice, da una parte il coraggio di pubblicare un libro che ha trecento note, in cui ci sono segni grafici, diagrammi, in cui si parla apertamente di un libro della Bibbia, che è il libro di Geremia che non ha letto nessuno; cioè forse tu’hai letto, ma ti assicuro che tra i miei amici cattolici che vanno a messa la domenica il libro di Geremia non è proprio il loro primo pensiero. Non è neanche il classico libro da citazione nei romanzi, c’è la Genesi, ci sono i Vangeli, c’è il Cantico dei Cantici, ci sono i Salmi e qualcosa di Qoelet, ecco, sono questi i libri più citati; e anche il libro di Giobbe. Se ci pensi è il libro dell’Antico Testamento che la narrativa riprende più spesso, mentre per il Nuovo Testamento ci si rifà spesso ai Vangeli.

Anatomia di un profeta salta i Vangeli, e se proprio trova un nuovo corrispettivo nel Nuovo Testamento è San Paolo.

Questo mi fa pensare che prima o poi dovrò affrontare i Vangeli, è una cosa che mi fanno notare tutti quelli che entrano nella mia scrittura dal punto di vista dell’immaginario religioso, perché la Bibbia e il Vangelo hanno un immaginario potente e sono un modo di narrare il mondo. Però questo non ha niente a che vedere con la mia fede, la fede è un’altra cosa, quella me la vedo io con il Padre Eterno o con il padre confessore quando mi devo confessare.

Comunque mi interessa questa cosa che hai detto, non sei la prima che mi dice di avere incontrato difficoltà a leggere Anatomia di un profeta in quanto genitore.

Ovviamente qualcuno potrebbe dimenticarsi che anche io sono papà, ho una bimba che ha più o meno l’età di Patrick: il bambino del romanzo. Quindi ovviamente è stato faticoso scriverlo; immaginarlo anche, ma scriverlo di più. Ma nello stesso tempo, e qui torno al discorso iniziale, Levi mi ha insegnato che nulla può essere indicibile, anche qualcosa che va oltre il limite morale, perché lo sforzo della chiarezza ti porta a superarlo. È come se l’idea di esser chiaro ti facesse dimenticare i limiti morali, perché è ovvio che sono storie che quando ci pensi ti paralizzi, anche come scrittore. Però lo fai.

Per me la scrittura è mettere una parola dietro l’altra, con chiarezza; e questo è un dovere più alto del rispettare i limiti morali.

 

Io credo fermamente nel valore catartico della lettura e della narrativa, c’è un romanzo di Stephen King, che una volta tanto non è It, ma Cujo, che mi ha colpito molto. È un romanzo tra virgolette minore, che non viene citato quanto CarrieShining o L’ombra dello scorpione. È un romanzo violentissimo, specie per me che divido la mia vita in prima e dopo la nascita dei miei figli, come se fossero due ere.

Rileggere questo romanzo dopo la nascita di mio figlio è stato come mettere il cuore in un tritacarne e farlo girare lentamente, perché alla fine il bambino protagonista di Cujo muore.

Credo che altri autori avrebbero salvato il bambino, infatti nel film tratto dal romanzo il bambino si salva. In realtà la grande visione di Cujo sta proprio in questo, nel non illudersi che la salvezza dal male sia qualcosa di garantito, che persino un bambino può morire.

 

Secondo me quest’idea del bambino che muore è un tema ossessivo in King, nelle sue storie ci sono tanti bambini che muoiono, anche in It, e in Pet sematary; e se è vero che tre indizi fanno una prova, probabilmente ho ragione.

Sai, credo che King sia un grande narratore, uno dei grandi narratori del nostro tempo e di certo tra qualche decennio si dirà che nell’Ottocento c’era Dostoevskij, nel Novecento King.

Quindi la grande narrativa ti dice questa cosa qui: i bambini possono morire, la gente può soffrire, ma i film si rivolgono al grande pubblico e le storie non sono più narrativa e ragionamento profondo, ma intrattenimento, quindi i bambini devono sopravvivere, ed è meglio che non muoia neanche il cane.

 

E se muore il cane almeno il bambino si deve salvare…

 

Esatto, ma aspetta, questa te la devo dire. In Conforme alla gloria ci sono scene di violenza su animali, in particolare su un toro. C’è gente che mi hai criticato perché ho narrato questa violenza, come se io fossi violento. La gente non capisce che è un discorso narrativo: a me serviva che quell’animale soffrisse, era un bisogno narrativo.

Quindi mi rendo conto che nel pubblico c’è una certa attesa: il bambino non deve morire e neanche il cane. Il film è fatto per un pubblico più vasto, e quindi alla fine c’è il “vissero tutti felici e contenti”. Non so… questo a me da l’idea di posticcio, di paccottiglia, roba così.

Secondo me in Pet Sematary questo fatto che il bambino ritorna sotto spoglie diverse è moto bello. Lui torna ma non è più lo stesso, è un mostro, uno zombie e ti dà un effetto come da film di Luciano Fulci. È una cosa terribile che però funziona perché dice che dopo la perdita non può esserci restituzione.

Credo che sia una critica alla restituzione, quel tipo di restituzione che vediamo nel libro di Giobbe. Giobbe soffre perché gli muoiono tutti i figli, è disperato. Ma Dio, dopo che ha vinto la scommessa gliene da tanti di più.

In Pet Sematary King sembra dirci: Ok, gliene hai dati tanti di più, ma non sono mica quelli che ha perso. Quelli di prima, la loro unicità non esiste più.

Nel mio libro e anche come genitore ho riflettuto a lungo su questo concetto, sull’unicità di mia figlia Rebecca. Lei come tutti noi è qualcosa che non può essere rifatto, ed è questa unicità che a me fa nascere i ragionamenti sulla perdita.

Ho finito da poco di leggere Klara e il sole, di Ishiguro, dove è presente proprio questo tema. Josie è una ragazzina che ha una malattia grave, e viene affidata a Klara, una specie di intelligenza artificiale, una bambola che sostanzialmente è in grado di provare emozioni ed elaborare sentimenti profondi come amore, affetto ed empatia. A un certo punto si scopre che i genitori hanno già perso una bambina e non vogliono perdere anche questa. Hanno preso questa bambola artificiale affinché assorba e impari a essere la figlia, in modo tale che quando morirà prenda il suo posto. La cosa interessante e che Klara stessa, cioè l’androide, che fa quello che le viene detto, impara a essere come Josie; ma a un certo punto capisce che non può essere esattamente come lei, perché il cuore non può essere riprodotto, e lei non può amare allo stesso modo di un umano, capisce che ogni persona è unica e quindi che non può ultimare quello le hanno chiesto. Allora cerca di risolvere il problema in un’altra maniera e inizia a cercare un modo per non farla morire.

È un romanzo che devi leggere, non ti dico il finale. Però posso dirti che l’androide riesce a trovare una soluzione, che è una soluzione assolutamente metafisica che apre il libro a un’interpretazione religiosa, o comunque a un’interpretazione spirituale. La cosa più bella, e non ti dico altro, e che alla fine Josie si salva e Klara viene messa in un ripostiglio, messa via.

A me è piaciuto molto perché qui c’è una metafora sulla genitorialità: siamo genitori che vogliono essere sempre presenti, anche se ogni tanto dovremmo capire che è il momento di chiuderci in un ripostiglio perché solo così i figli possono sviluppare la loro unicità. 

Riallacciandomi all’argomento di prima penso che Anatomia di un profeta sia così disturbante proprio perché io ho una bambina, e non avrei mai scritto in quel modo se non fossi stato padre, probabilmente avrei scritto in un altro modo, e sarebbero state diverse anche le sensazioni che ho sentito scrivendolo.

 

La prima volta che ho letto It credo che avrò avuto otto o nove anni, l’ho riletto tante volte nel corso degli anni e quello che mi ha stupito di più, l’ultima volta che l’ho letto, era che non mi focalizzavo più sui bambini ma sugli adulti, in particolar modo sui genitori.

Adesso il romanzo mi piace anche di più perché mi rendo conto che King non ha scritto solo di questi bambini potentissimi, ma ha scritto anche di genitori – lui che era un genitore – di padri e di madri agghiaccianti, come la madre del piccolo Corcoran che sapeva che il compago le aveva ucciso il figlio, eppure non lo denuncia alla polizia. Questa cosa mi fa molta più paura del mostro. E mi fa un certo effetto anche la cecità dei genitori difronte al male che i figli subiscono.

 

C’è anche il padre di Beverly.

 

Certo, il signor Marsh.

 

Sai, il personaggio di It che mi affascina di più è Stan: lui sente che tutto è profanato, per questo si suicida, ed è qualcosa di molto profondo. King ha questa audacia di anticipare il suo suicidio all’inizio del libro e poi farlo rivivere il bambino quando tu sai già che morirà; qui ci vedo della sapienza. King in quel libro non è soltanto un grande scrittore, e anche un sapiente, in quel periodo è baciato dalla grazia.

Io dico, a quale scrittore consiglieresti di giocarsi tutto l’orrore nelle prime cinquanta pagine? Cioè, è un libro che conta più di mille pagine, capisci che intento? Ma lui riesce a reggere perché il cuore della storia non è il clown, e neanche i bambini, almeno non totalmente, il cuore della storia è la città.

Mi piace molto il fatto che quel bambino rimane in città e lavora in biblioteca, e piano piano ricostruisce la storia della città in tutto il suo orrore, come si chiamava?

 

Dici Mike?

 

Sì, il bambino di colore. Perché la città è fatta di relazioni, di padri, di madri, di negozi e aziende; aziende precedenti, aziende successive, bar e ristoranti, e di tutte le relazioni fra di loro. È questo che produce It e lo trovo geniale.

Lo fanno passare un romanzo dell’orrore ma è un trattato di antropologia, di che cos’era l’America negli anni ottanta.

 

Mi fai venire in mente una cosa che riguarda mia figlia. Lei ha letto diverse cose, ha letto Harry Potter, e una volta ha iniziato a leggere It, poi ha smesso perché era un periodo nel quale la scuola la impegnava molto. Mi pare che condivisi con qualcuno il fatto che mia figlia stesse leggendo Stephen King, e mi ricordo che da qualche parte mi arrivò un commento tipo: Chissà quando comincerà a leggere Chateaubriand. Citava anche qualche altro autore, qualcuno di questi autori fighi, non lo so, tipo Gogol’.

Ma perché? Mi dicevo, se leggi King e ti piace King puoi anche non leggere Chateaubriand e Dostoevskij, o Tolstoj o Balzac? Anzi, credo che dopo tu possa riuscire più facilmente a leggere Tolstoj e Balzac. Perché io sono convinto che King sia un tipico autore Ottocentesco, molto più di altri. 

La letteratura non è di seria A o B, o alta e bassa. Poe è forse meno importante di Whitman per la letteratura americana? Baudelaire è meno importante di Balzac? 

I formalisti russi dicono che la letteratura è una sorta di scarto del linguaggio comune. Scarto non in senso negativo ma nel senso del discostarsi. Perché la letteratura è quella cosa che ti fa fare un salto dalla lingua media, è uno scarto rispetto alla qualità del nostro quotidiano parlare. Non c’è alto o basso, c’è scarto, c’è qualcosa che mi porta fuori da me stesso e mi dà qualcos’altro.