Intervista a Simone Barillari: intorno alla formazione e al mestiere del traduttore

Simone Barillari è saggista, editor e traduttore. Ha lavorato su testi di Conrad, R.L. Stevenson, Hemingway, Jack London, Eudora Welty, John Barth, Rick Moody, W.T. Vollmann, Leonard Cohen e Michel Houellebecq. È stato uno dei principali collaboratori del Dizionario della letteratura americana del Novecento pubblicato da Einaudi. Ha ideato e diretto collane di letteratura e saggistica, tra cui una per minimum fax dedicata al grande giornalismo americano.

 

Ho conosciuto Simone durante il mio corso di formazione sui mestieri editoriali, ormai circa dodici anni fa. È stato il docente più severo e più sfidante (ricordo ancora un’intensa settimana passata solo su uno dei suoi esercizi), ma anche tra i più generosi, umanamente e professionalmente, e negli anni ho ripensato spesso alle sue lezioni (come editor dovete avere delle competenze sia orizzontali sia verticali). Ho avuto la fortuna di rincontrarlo diverse volte, dopo quel corso di formazione, e ogni volta ne ho imparato ad apprezzare ancora di più la grande cultura e gentilezza. Gli sono profondamente grata per avermi dedicato – ancora una volta – un’ora del suo tempo per rispondere a qualche domanda. Penso che quest’intervista possa essere un’utile lettura per tutti coloro che hanno interesse per il mestiere del traduttore, per l’editoria e – più in generale – per la letteratura.

 

 

 Come prima cosa, volevo chiederti come sei arrivato a fare il traduttore.

Il mio percorso per arrivare all’editoria è stato molto anomalo. Mi sono laureato alla Bocconi e ho preso un master in Economia presso una delle più prestigiose università francesi. Ho fatto il manager fino ai 28 anni con grande profitto, seppur solo economico; dopodiché ho mollato tutto e mi sono trasferito da Francoforte a Roma, e poi mi sono messo a cercare delle collaborazioni con delle case editrici mentre intanto facevo l’autore di testi per la Rai, perché quello che stavo facendo in azienda non mi piaceva.

Lavoravo per la Procter & Gamble, una multinazionale che si occupa di prodotti per la casa. Un giorno durante uno dei corsi di formazione che l’azienda proponeva ai suoi manager ci chiesero di fare un esercizio, dovevamo visualizzare cosa saremmo stati fra dieci anni. Ognuno di noi doveva visualizzare la sua posizione all’interno dell’organigramma aziendale, ma soprattutto il tipo di campagne che avrebbe portato avanti. Terminato l’esercizio mi resi conto che probabilmente sarei morto se avessi fatto altri dieci anni di quella vita, e un mese dopo diedi le dimissioni.

Per tutta la vita ho letto molto, veramente moltissimo, e ho studiato moltissimo. Una cosa che credo mi abbia aiutato a trovare un posto nel campo editoriale è stata la conoscenza delle lingue. Io ne parlo diverse, e conosco abbastanza bene il latino. Conosco anche un po’ di greco, che ho studiato al classico e che ho tenuto abbastanza fresco. Grazie a tutto questo riesco a districarmi abbastanza bene nei testi scritti in lingua originale.

Fondamentalmente, la mia preparazione all’editoria è stata autodidatta; quindi è un percorso un po’ anomalo e che non mi sento di raccomandare nessuno, o forse lo raccomanderei a tutti. Non so, questo è il mio di percorso e non ha nulla di esemplare.

 

Se dovessi chiederti di identificare cinque qualità che un traduttore dovrebbe assolutamente possedere, quali sarebbero?

È una bella domanda. Credo che un buon traduttore dovrebbe saper leggere molto bene nella lingua da cui traduce, sapere scrivere molto bene nella lingua in cui traduce, avere un’ottima cultura generale e possedere tanto orgoglio quanta umiltà. Sì, direi che cinque qualità potrebbero essere queste. Come vedi sono tre qualità tecniche e due morali; tutte di uguale importanza.

 

Cosa intendi per avere una buona cultura generale?

Leggere molto e un po’ di tutto, ma soprattutto leggere bene. Oggi si scambia la quantità di quello che si legge con la qualità; c’è una grossa differenza tra leggere un buon libro e leggere uno dei tanti libri che si trovano in libreria. Ci sono dei libri che sono essenziali nella cultura occidentale eppure non vengono letti, spesso si leggono libri che non servono.

Farei una distinzione su tre piani: informazione, cultura e conoscenza. Come ti dicevo leggiamo troppa informazione. Con un certo impegno si può sviluppare una buona cultura, ma per arrivare alla conoscenza questo stesso impegno non basta. L’informazione si ottiene leggendo, la cultura si ottiene leggendo bene, e la conoscenza si ottiene pensando. Per fare il traduttore occorre soprattutto avere una vasta cultura e quindi leggere bene, leggere temi importanti e avere dentro dei semi fondamentali per capire a che cosa fa riferimento quel libro, magari in maniera velata; e poi naturalmente bisogna essere disposti ad approfondire dei campi specifici: una volta mi è perfino capitato di approfondire lo studio sulle turbine idroelettriche.

Comunque, tutti questi aspetti tecnici si possono in qualche modo raggiungere in un tempo relativamente breve. Ma quello che invece è davvero importante – soprattutto se traduciamo letteratura – è la capacità di avere una cultura sufficientemente ampia da permetterci di riconoscere dei libri esterni a quello che stiamo traducendo. È chiaro che questo vale se si traduce letteratura; se si traduce narrativa sciocca, che poi è quello che si pubblica in larga maggioranza, tutto questo non serve quasi a nulla. Ma se uno traduce romanzi interessanti, libri importanti e di un certo livello diventa assolutamente fondamentale.

È così, non ci sono altri modi, bisogna approfondire la conoscenza dei libri che servono per capire il nostro libro; per fare una degna traduzione bisogna capire a quale libro fa riferimento l’autore in maniera diretta o indiretta, citando non citando. Questo vale sicuramente per i libri dell’Ottocento e primi del Novecento, ma ci sono ancora dei libri che fanno continui rimandi ad altri testi. Un autore che mi è capitato di leggere e persino di tradurre è Everett, uno scrittore molto complesso da capire e da tradurre e se non si coglie il reticolo di riferimenti alla storia della letteratura che riesce a intessere nei suoi libri; se ti sfuggono i semi, insomma, è un problema. Non so come dirti, non mi riferisco semplicemente alle citazioni o alle allusioni, ma ai riferimenti che innervano i dialoghi con gli altri libri: questa è una cosa molto sottovalutata che però conta. È un concetto insostituibile, perché si può approfondire facilmente un argomento specifico del libro che si traduce, ma non la relazione tra un libro e l’altro.

 

Mi è venuto in mente un fatto che voglio raccontarti. Premetto che io ho una formazione umanistica: ho fatto il liceo classico, Lettere e Filosofia, vari corsi di editoria e infine ho iniziato a fare questo lavoro. Ho sempre letto una gran quantità di classici, ma per conto mio leggevo anche cose molto pop, ovvero popolari, e non per forza di grande qualità; ma comunque formandomi un gusto personale. Una volta, durante un laboratorio nel quale tenevo una lezione, ho chiesto a una ragazza appena laureata cosa gli piacesse leggere. Era una domanda banale e chiaramente non c’era una risposta giusta, perché non era una domanda del tipo “in quale anno Agatha Christie ha pubblicato il suo primo giallo”. Questa ragazza ha iniziato a snocciolare tutta una serie di libri, da Virginia Wolff ad altri classici, letture tipicamente universitarie; e quindi gli ho risposto “Vabbè, ma tu quando vai in libreria che cosa compri?” Lei è rimasta basita e solo dopo qualche secondo ha risposto “Non lo so”.

Non leggeva, capisci, e ci sono rimasta male. Io a dodici anni leggevo Primo Levi ma leggevo anche i Piccoli Brividi e quindi iniziavo a capire cosa mi piacesse. Ripensando a quella studentessa ho paura che la formazione sui grandi classici possa diventare una sorta di inibizione rispetto all’andare in libreria e formarsi un gusto, una sensibilità propria.

Capisco. Sai, non vorrei dirlo ma oggi le librerie mi sembrano delle grosse edicole in cui i libri sono come quotidiani che durano tre mesi, e non mi interessa molto sapere che titoli si trovano su quegli scaffali. A me va bene che le persone leggano i romanzi di consumo, l’importante è che abbiano consapevolezza che hanno tra le mani, appunto, un onesto romanzo di consumo. E poi c’è un problema: leggendo molti di questi romanzi a un certo punto si perde qualcosa. Io sono un khomeinista su queste cose: anche se lo dicono tutti, non è vero che leggere fa bene. Secondo me si può vivere una vita retta, giusta e normale senza leggere nulla; e se uno legge solo per intrattenersi io gli consiglio sempre di farsi l’abbonamento a Netflix e di vedersi le serie televisive. Quello a cui assistiamo è una progressiva erosione del tempo che abbiamo da dedicare alla lettura. Ci sono molte distrazioni che consumano la nostra attenzione, e i libri non sono un granché come intrattenimento; i film alla tivù richiedono meno fatica e a volte sono più emozionanti, su questo non ho dubbi. Ma quello che le immagini in movimento non riescono a superare è la creazione di un pensiero profondo; che non vuol dire in nessun modo rinunciare, diciamo così, ad intrattenere il lettore. Mi spiego meglio: hai presente la storia di madame Bovary? È una storia bellissima, dietro la quale però si nasconde il pensiero profondo che riguarda ciò che significa essere umani, e questa è una specificità della letteratura, o per meglio dire della prosa, più che di qualsiasi altra arte, a parte forse la musica. Lo so che suona un po’ teorico ma spero di essermi spiegato, il pensiero astratto è una delle cose che più profondamente ha caratterizzato circa venti secoli di pensiero umano; e la capacità di sviluppare il pensiero astratto, cioè di non rispondere semplicemente alle emozioni, è una delle funzioni superiori che caratterizza l’essere umano. Il pensiero astratto si può sviluppare solo attraverso degli strumenti di ordine astratto, e questo è uno dei motivi per cui nell’Ottocento la musica è stata ritenuta l’arte a cui tutte le arti aspiravano. Perché con la musica, e con la musica classica in particolare, forma e contenuto coincidono come non succede in nessuna altra arte, nemmeno con le parole, nemmeno con la poesia. Quindi per il pure intrattenimento va benissimo anche Netflix o giocare alla playstation, non è un problema.

Quello che serve per vivere oggi non è vincolato alla lettura dei libri; oggi si può essere delle persone di successo, affermarsi in società ed essere ritenute colte senza leggere. È pieno di persone che vengono ritenute colte e che cinquant’anni fa sarebbero state considerate piuttosto ignoranti. Oggi uno può essere ritenuto colto senza conoscere, che ne so, le tragedie di Euripide.

Tempo fa trovai una scatola di fiammiferi sulla quale era scritta una frase di Umberto Eco, non ricordo precisamente le parole ma diceva che lui a un quiz di Mike Bongiorno sarebbe andato molto male. La cosa mi fa ancora sorridere perché probabilmente è vero, eppure parliamo di uno degli uomini più colti della seconda metà del secolo scorso.

 

Per intenderci: non è che io controlli tutti i giorni gli scaffali delle librerie, anche perché leggo le novità con circa un anno di ritardo. Facendo il lavoro della redazione e non dell’ufficio stampa non devo stare appresso alle novità, ma credo che occorra anche una buona conoscenza di quello che passa in libreria. Preso atto che c’è un’enorme quantità di produzione d’intrattenimento che resta sugli scaffali solo tre mesi, è necessario aggiornarsi; soprattutto se uno non fa solo il traduttore, ma si occupa anche di scouting, valutazioni e di redazione in senso ampio.

C’è sempre una cosa che ci chiedono quando facciamo le schede di lettura, ovvero se il libro che stiamo valutando assomiglia a qualche altro libro o se c’è qualcosa di simile in libreria; e non mi sembra una questione priva di senso. Ci sono dei periodi in cui ci riversano fiumane di libri che parlano della stessa cosa, quindi c’è da chiedersi seriamente se ha senso fare l’ennesimo libro che parla dello stesso argomento sciocca. Allora, se il libro apporta anche un piccolo contributo in più si prende in esame e se ne parla, altrimenti si passa al prossimo.

Ripeto, capisco quello che vuoi dire però d’altra parte, proprio per il tipo di lavoro redazionale che faccio per me è necessario sapere cosa gira in libreria. Altrimenti non credo che potrei fare bene il mio lavoro, non fregandomene di quello che c’è sugli scaffali.

Dipende da quello che uno vuole fare di questo mestiere. Hai detto una cosa molto bella prima: si cerca sempre un libro a cui assomiglia un altro libro, insomma è la dimostrazione che vogliamo delle cose che già ci sono, e questo raffigura sia l’editore sia il lettore. L’editore perché così non prende un grosso rischio, e il lettore perché non vuole essere troppo sconvolto da leggere qualcosa che mette in crisi quello che fa o che magari è abituato a comprare. In un libro di Nietzsche c’era questa frase bellissima, forse era nella genealogia: bisognerebbe scrivere solo libri che sono per tutti e per nessuno. Goethe invece diceva una cosa molto forte, cioè che tutto ciò che perisce non è che somiglianza. Uno dei grossi problemi del libro è che ormai è fatto per perire, mentre invece il libro nasce per durare. Questa è la vocazione della scrittura. La scrittura nasce per vincere la morte, per durare più delle ossa della mano che incide la pietra. Oggi quest’ambizione è sempre più rara e difficile da portare a termine. Quello che mi sento di dire – e sicuramente dipende da che punto della fiera editoriale ci si colloca – è che l’ambizione e il credo di chi fa questo mestiere dovrebbe essere quello di distinguere molto bene i libri e di stare dalla parte dei libri che sono di un’altra qualità.

Bazlen aveva elaborato il pensiero – che poi è stato usato come una sorta di stemma dall’Adelphi – di pubblicare solo libri unici; dove i libri unici sono libri che in qualche modo non hanno somiglianze con altre cose che esistono, ed è quello che dovrebbe permettersi di fare ogni editore. Ma l’editoria è altro e mi rendo perfettamente conto che queste sono, come vogliamo chiamarle, aspettative ideali che non trovano riscontro nei conti economici e nella realtà del pubblico; però sono queste le cose che dovremmo fare.

Nella vita ho tradotto anche libracci e non ho nessuna difficoltà a dirlo; mi pagavano molto bene. Uno dei problemi è che questo genere di distinzioni si va sempre più affievolendo nella mente e nel cuore delle persone che decidono. 

Quando ho cominciato a fare questo mestiere era la seconda metà degli anni Novanta e si diceva ancora che certi libri servivano a farne altri. Era vero, ed era vero anche nel cinema perché certi film negli anni Settanta servivano a pagare Visconti e Fellini, e naturalmente le somme del cinema sono molto maggiori rispetto a quelle editoriali. Oggi ogni libro deve giustificare la sua pubblicazione economicamente, non artisticamente; questo esclude moltissimi titoli e la possibilità di fare nel modo in cui meritano pochi titoli particolarmente importanti. Una volta mi è capitato di vedere un libro, non dirò quale, tradotto maluccio e rivisto peggio. Mentre se tu cerchi libri di autori che stravendono, molto spesso è proprio su quelli che ci si può permettere il secondo giro di bozze, la revisione della traduzione, eccetera, perché quel libro è destinato a vendere dieci, quindici, quarantamila copie. Questo è un problema insormontabile, ovvero che il riscontro economico parli più del valore artistico.