Intervista a Eraldo Baldini: il gotico rurale e altre storie

[Nota: questa intervista è apparsa per la prima volta sul blog della Matita Rossa]

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Innanzitutto grazie del tuo tempo, sono davvero contenta di sentirti. Ovviamente vorrei parlare con te di scrittura, ho letto molti dei tuoi libri e mi piace molto la tua capacità di scrivere horror, gotico, partendo da un retroterra italiano. Intanto, come hai iniziato a scrivere? Cosa è stato importante per formare questo tuo gusto?
All’inizio c’è la passione per la lettura, ma ancora prima per le storie. Io sono nato quando ancora esisteva in campagna una società tradizionale. Sono del ’52 e sono cresciuto in un paese della campagna ravennate quando ancora c’era l’usanza di ritrovarsi la sera, nelle case, ad ascoltare fiabe. C’erano degli anziani, che abitavano vicino a casa mia, che mi raccontavano storie e leggende. Quindi questa passione per le storie, e anche per un certo clima di mistero, è nata lì. E poi ho avuto la fortuna che mia madre fosse una forte lettrice, quindi avevamo tanti libri in casa. Eravamo una famiglia molto umile, ma mia madre leggeva tanto e io ho approfittato di questa piccola biblioteca casalinga per leggere sin da subito i libri da adulti, e poi mia madre li sceglieva bene… c’era tanta narrativa americana del ‘900, Steinbeck, Caldwell, Hemingway, Capote, Dos Passos, e poi i russi. Quindi la passione per la lettura mi ha accompagnato sempre, fino alla scoperta di alcuni altri autori: prima di tutto Poe e Lovecraft.
Per la verità io non ho iniziato prestissimo a scrivere, o almeno a scrivere di narrativa. All’università mi sono laureato in Lettere, ma ho seguito un corso di studi molto improntato sull’antropologia culturale (materia nella quale mi sono poi specializzato), quindi sullo studio del folklore e delle culture popolari… forse in virtù della passione infantile per quelle storie che ascoltavo.
I miei primi libri sono stati saggi di antropologia culturale, cosa che cerco di fare ancora quando posso dedicarmi alla ricerca. Poi mi sono accorto, approfondendo quella materia, che lì dentro c’era tantissimo materiale per ispirarsi e farci della narrativa. In realtà in Italia non c’erano molti autori che utilizzassero questo serbatoio di storie, di personaggi fantastici, tanto che per dare un nome a questo genere è stato usato il titolo di un mio libro di racconti, Gotico rurale. Quindi molte delle mie cose, romanzi e racconti, hanno quell’impronta, anche se non tutti. Non ho mai amato il fatto di sentirmi rinchiuso in un genere, ho scritto romanzi che non hanno nulla a che fare con quel clima, da Nebbia e cenere a L’uomo nero e la bicicletta blu, a Nevicava sangue che è un romanzo storico. Ho sempre voluto avere la libertà di scrivere la storia che avevo in testa.

A me, come ti dicevo, piace molto questa tua capacità di attingere al mondo rurale e di periferia per costruire storie. Non hai scritto solo horror… ma in generale la narrativa italiana non parla di storie di provincia… o almeno non si è mai costruito un immaginario rurale forte, penso anche a Stephen King e al Maine…
Mah, nel mondo anglosassone c’è sempre stata un’attenzione al mondo rurale e alle piccole comunità, sia attraverso la narrativa maggiore, penso a Steinbeck, sia a una narrativa di genere partita già nell’Ottocento e proseguita nel Novecento, penso a Conan Doyle, ad Arthur Machen, ad Ambrose Bierce, a Shirley Jackson, a Thomas Tryon, a Ray Bradbury, a Dan Simmons e a molti altri, fino ad arrivare appunto a Stephen King.
Nella narrativa anglosassone esiste questa tradizione, in quella italiana no, o in scarsa misura. Aveva ragione Oreste del Buono quando qualche decennio fa sulla Stampa scriveva stupendosi di questa cosa. Scriveva che la popolazione italiana, con un background di storie e di folklore così ricco, di culture popolari così interessanti, chissà perché non aveva partorito autori che partissero proprio da quel background per fare narrativa. In effetti è abbastanza strano. Io penso che il mondo della provincia in generale, non solo della campagna, sia più interessante per la narrativa di genere. Anche la cronaca ci conferma che le storie più oscure nascono più in provincia che nelle metropoli. E poi, sai, quando si parla di piccole comunità entrano in gioco certe dimensioni in più che il narratore può usare: una è quella della memoria. Nelle piccole comunità c’è una memoria condivisa, un’epica locale… tutti si conoscono, c’è un occhio collettivo. Sai tutto degli altri ma soprattutto sai la loro storia, sai di chi sono figli, nipoti ecc… in un ambiente così è chiaro qualsiasi manifestazione che va fuori dalla norma sconvolge di più, è come un castello di carte dove tutti sono collegati. Un evento traumatico riguarda tutti, non come in città. Le piccole comunità si basano su una rete di relazioni, di cose dette e di cose taciute, quindi il clima sociale, psicologico e umano è più interessante per un narratore. Mi viene in mente il primo romanzo che hanno scritto insieme Guccini e Macchiavelli, Macaroni, ambientato in una piccola comunità dell’Appennino, dove c’è un omicidio, e la genesi di questo omicidio risale a molti decenni prima. Una dinamica del genere non sarebbe possibile in una metropoli, dove manca questa dimensione della memoria, dei rancori lunghi, ecc. Questo è possibile solo in provincia. Nelle comunità rurali esiste, tra l’altro, ancora una dimensione in cui natura e sopra-natura sono divise da un confine labile. C’è ancora nel DNA delle persone questo legame con un mondo di vecchie superstizioni, leggende locali, personaggi dell’immaginario, di una geografia dell’immaginario. Per me tutto questo crea una possibilità narrativa molto ampia e che mi piace molto.

Entrando nel concreto della tua scrittura, tu come costruisci le tue storie?
Normalmente tutto parte da un nucleo di idea e intorno a questo costruisco. Io ho un sistema di lavoro come ogni scrittore ha il suo, a volte quando leggo On writing di King rimango stupito e anche ammirato da questa cosa che lui dice: io sono uno scrittore professionista, per cui la mattina accendo il computer, sto lì tot ore e qualcosa deve venire fuori perché è il mio lavoro. Ecco, io non potrei mai fare così, io ho bisogno di avere un’idea e di lasciarla molto maturare, di metabolizzarla, di pensarci, di fare ricerca, prendere appunti. Io mi prendo lunghe pause tra la scrittura di un libro e quella del successivo, anche se ho una produzione ampia, ma questo perché sono veloce a scrivere. Sto molti mesi senza scrivere tra un libro e l’altro, proprio perché l’idea deve maturare, sia nell’impianto generale che nei personaggi, in pezzi di dialoghi, situazioni che mi vengono in mente… e lo sento istintivamente quando è arrivato il momento di cominciare a scrivere. A volte una storia matura in poco tempo, a volte ci vogliono anche anni perché sia pronta per essere scritta. Però credo che un sistema aritmetico, valido per tutti, per cui si parte prima dal personaggio piuttosto che da un’altra cosa sia impossibile da definire.

Quali sono per te le differenze tra scrivere romanzi e racconti?
Beh, è chiaro che ci sono delle differenze… per un racconto può bastare un’idea forte e poi si può scriverlo anche in due giorni. Il racconto certamente non ha bisogno di quell’impianto, di quelle diramazioni… non ha bisogno di quel montaggio tipico del romanzo. Quindi è un’operazione molto più semplice, ma questo non significa che scrivere un buon racconto sia più facile. È più semplice ma non più facile, nel senso che occorre meno materiale e meno tempo, ma credo che un racconto per essere buono debba lasciare il segno in poche pagine. Quindi occorrono un’idea forte e un approccio alla scrittura particolare, che mantenga un ritmo costante e che sappia in poche pagine creare un climax, mentre in un romanzo hai molto più tempo e molte più pagine.
A me piace molto scrivere racconti, il problema è che nell’editoria italiana i racconti non sono molto amati dagli editori, c’è questa sensazione che il pubblico dei lettori sia minore, che ci siano minori vendite e quindi l’editore preferisce sempre il romanzo. D’altronde in Italia non c’è neanche questa tradizione della formazione attraverso il racconto; pensa alle riviste letterarie che ci sono negli Stati Uniti, sono tantissime e tutti gli scrittori vengono da questa palestra in cui ci si misura innanzitutto col racconto. In Italia questa cosa non c’è, e forse è anche questo che penalizza la forma del racconto.

Mi è piaciuto moltissimo Bambini, ragni e altri predatori, che ha anche un titolo molto bello e molto calzante… e per parlare di un racconto in particolare io prenderei Il ragno. Ti va di raccontarne un po’ la genesi o come lo hai scritto?
L’idea di quel racconto è partita come una sorta di presa in giro. Io mi sono sempre sentito uomo di campagna, non ho mai vissuto in città, ancora oggi vivo in una piccola frazione del ravennate. E mi capita di vedere ristrutturare queste seconde case, da parte di persone che sono sempre vissute in città e che affrontano la campagna come una bella idea che alla fine si va a scontrare con i problemi della campagna. Vedere queste persone che arrivano col SUV, che si abbigliano in modo particolare, come se andassero nella giungla, mi fa molto sorridere perché se poi questi vedono un ragno, anche piccolo, non come quello del racconto, sono già nel panico. Quindi l’idea era un po’ questa, è un racconto nato come una presa in giro che poi è passata attraverso l’iperbole di questo ragno enorme e mostruoso. Dunque il tono di per sé non è drammatico, è anzi ironico. Molte delle mie storie nascono da questo mio senso di identità che è estraneo all’ambiente urbano, e la mia narrativa ha dentro questa consapevolezza.

Ancora un paio di cose. A chi inizia a scrivere, consigli di scrivere racconti o romanzi?
La logica direbbe che viene prima la forma del racconto, perché è più semplice. Ma è molto difficile esordire con un libro di racconti, in Italia è quasi impossibile, solo la piccola editoria pubblica racconti mentre un grande editore ti pubblica un libro di racconti solo se hai già un nome come romanziere. Quindi c’è una sorta di costrizione a proporre da subito un romanzo, seppur la logica sarebbe quella di partire dai racconti. Manca appunto quel canale di mediazione che sono le riviste letterarie. In realtà mi viene da consigliare di lasciar perdere. (ride)

Un ultima domanda… consigli di lettura? Per chi vuole imparare a scrivere o anche solo per chi vuole farsi un buon bagaglio di letture.
Io credo che un’ottima scuola sia quella degli scrittori americani della metà del ‘900. Credo che quel livello non si sia più raggiunto… sono davvero testi che si possono usare in una scuola di scrittura. I nomi sono Steinbeck, Hemingway, Caldwell, Harper Lee, ecc. Trovo che quella sia stata una stagione felicissima, con gente che non solo aveva belle storie da raccontare ma che le scriveva anche molto bene. A scatola chiusa oggi compro solo Cormac McCarthy, questo sì lo consiglio, c’è una grande scrittura oltre che buone storie.
Per quanto riguarda gli italiani mi è molto difficile essere obiettivo, facendo questo mestiere da tanti anni li conosco tutti personalmente… quando leggi il libro di un amico è tutta un’altra cosa, ma se devo essere molto sincero preferisco gli americani, soprattutto quelli di “ieri”. Questo è anche il difetto di una persona che ha passato i sessant’anni: io sono appassionato di musica e ho sempre l’impressione che la musica di questi anni faccia schifo (ride), quindi continuo a sentire quella degli anni ’60 e ’70. E anche in questo caso non so se sono obiettivo.