Intervista a Giusi Marchetta: le radici della scrittura (e della lettura)

[Nota: questa intervista è apparsa per la prima volta sul blog della Matita Rossa]

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A me piacciono molto i racconti, più che i romanzi, e dunque sono contenta di parlare con te… intanto parto dalla domanda che faccio a tutti, è una delle cose che mi interessa di più: come hai iniziato a scrivere? Tutti incameriamo una serie di informazioni, posti dove viviamo, cose che leggiamo, scuole che frequentiamo… e a un certo punto si inizia a scrivere per una miscela di eventi che è sempre diversa per ogni persona.

Mi piaceva scrivere quando ero piccola. Come tanti avevo questa aspirazione, scribacchiavo storielline, ma non avevo percorso con continuità questa strada. Poi mi è successa una cosa, un incidente per cui ho sviluppato una serie di attacchi di panico. È stato un periodo brutto e per superarlo ho iniziato a fare tutte quelle cose che mi spaventavano: stare in luoghi chiusi, oppure prendere i mezzi… Io abitavo a Caserta e a Napoli c’era un corso di scrittura, quello di Antonella Cilento, e ho iniziato ad andare perché si teneva la sera e quindi sarei dovuta tornare a Caserta con il treno, di notte. Era una cosa che mi metteva molta ansia e quindi l’ho fatta. E ho iniziato a fare anche un’altra cosa che poteva mettermi ansia: scrivere. Lei però è stata enormemente incoraggiante e così ho iniziato a scrivere più seriamente e dopo circa un anno Matteo B. Bianchi che cercava racconti per Linus, al laboratorio, pubblicò me e Massimiliano Virgilio. Il laboratorio di Antonella è stato fondamentale: era prima di tutto un corso di lettura, e lei è una persona enormemente colta, quindi anche come lettrice è stata un’esperienza molto utile.


L’altra domanda viene naturale: tu scrivi racconti – che è una cosa molto diversa dallo scrivere romanzi, anche se di romanzi ne hai scritto uno – e quindi perché per te funziona meglio il racconto del romanzo?

Io lo preferisco anche da lettrice. Un racconto ben fatto per me è un capolavoro, una cosa che ti porti dietro, è una piccola esplosione. Da scrittrice però, credo di preferirlo anche per una questione di ansia. Di solito inizio a scrivere dalla fine: so già dove voglio arrivare e so che costruirò tutto quello che c’è prima in modo che la conclusione sia il più efficace possibile. Per farlo mi do un tempo (da una settimana a qualche mese) e già solo vederne la fine di solito mi tranquillizza. Al contrario il romanzo è un lavoro molto più lungo e mi è più difficile gestire l’ansia con una storia di cui non vedo in tempi brevi l’evoluzione. In questo senso, il racconto è più gentile con me.


Nei tuoi racconti, almeno in quelli che ho letto io, si parla sempre di Napoli. Tu adesso vivi a Torino da diversi anni… riesci ora a immaginarti dei racconti ambientati a Torino?

Credo di sì, anche se adesso sto lavorando a un romanzo legato a casa, a Caserta. A volte però mi rendo conto che se anche riesco a immaginare dei racconti ambientati a Torino la lingua in cui mi viene naturale scriverli, le parole che uso, le storie stesse, sono legate alla mia infanzia e all’adolescenza passata tra Caserta e Napoli. Napoli in particolare è prepotente, ti impedisce di staccartene. La città è sempre un altro personaggio perché si fa sentire, mentre Torino può fare benissimo da sfondo a qualsiasi storia.


Penso che forse città come Torino, ma anche come Rovereto, dove vivo io, siano più silenti. Io vengo da una cittadina dell’hinterland romano, dove le cose che avvenivano, belle o brutte, erano molto evidenti. Ci sono dei posti più silenti, dove le cose non si vedono così bene… dopo un po’ inizi a vederle, ma fai più fatica… o almeno, per me che non ci sono nata è molto difficile.

Ecco, io sono a Torino da sette anni e secondo me ci sono delle cose che noi venuti da fuori, semplicemente, non capiamo. Non riusciamo proprio a vederle. Per un autore che è nato e cresciuto qui è diverso. Capita che i miei amici torinesi mi spieghino abitudini o modi di fare che a me sembrano distanti. Loro mi contestualizzano queste cose e io capisco che non le avevo considerate nel modo giusto. Secondo me ci sono delle radici, per cui portiamo ovunque con noi la città in cui siamo cresciuti e anche la difficoltà nel comprendere bene un altro posto, compresa la lingua degli abitanti, fa parte di questa esperienza. Ma è anche uno stimolo. Io lavoro in una scuola dove frequentano anche ragazzi marocchini, e uno di questi ragazzi ieri parlando con me ha detto “e bòn!”, che è un modo di qui per dire “e basta!”. Questo ragazzo si chiama Mohamed e io lo guardavo pensando alle storie che racconterà, al rapporto che avrà con i suoi figli che nasceranno qui e al rapporto che ha e avranno loro con il Marocco, e quindi mi chiedevo: dov’è ancora Napoli per me? E poi dove sta il Marocco di Mohamed? A Torino?


Tu hai detto che stai scrivendo un romanzo e abbiamo anche detto che il romanzo per te è una forma più faticosa… e quindi com’è che questa storia ha preso la forma del romanzo invece che quella del racconto?

Purtroppo questa storia era un romanzo. Ci ho anche provato, lo giuro, a farne un racconto, ma anche se l’idea era nata come un racconto si è poi sviluppata in un modo troppo complesso. Mi sto impegnando molto, comunque, per affrontare la forma del romanzo. Lavorare a una storia lunga è una grande scuola di scrittura.

Volevo farti una domanda anche su Lettori si cresce. E la domanda è questa: ma serve come libro? Perché io guardo sempre con molto sospetto ai libri che parlano della lettura e dei non lettori… perché alla fine questi libri se li legge solo chi alla lettura è molto interessato e quindi già legge. Come ci arriva, un libro così, a promuovere la lettura? Mi sembra un circolo chiuso.

Anch’io mi sono posta le stesse domande quando mi proposero di fare il libro. Secondo me però serve il dibattito sul tema della lettura a scuola e porre la questione a chi si occupa di fare educazione alla lettura è importante. Noi non possiamo accontentarci di dividerci tra chi è lettore e chi non lo è. Ad esempio le persone non hanno le stesse possibilità o le stesse predisposizioni: ci sono ragazzi che a casa hanno biblioteche intere e altri che non hanno neanche un libro. È la scuola il luogo in cui i ragazzi dovrebbero essere accompagnati lungo un percorso di lettura perché a scuola il lettore si può e si deve crescere. Purtroppo in Italia questo discorso si fa poco o non lo si fa bene, soprattutto perché raramente questo percorso si costruisce in modo strutturato. Di solito si continuano a seguire programmi vecchi, a imporre letture sorpassate.

Il senso del libro quindi è porre una questione: si chiede di aprire le porte della scuola a una lettura vera, che non sia solo didascalica, edulcorata, moralizzante, una lettura che ponga dei dubbi e che faccia sviluppare uno spirito critico. Quando il libro è uscito nel 2015 era già iniziato un dibattito sulla lettura, ma poi a livello legislativo nulla è cambiato. Dopo la pubblicazione ho incontrato moltissimi insegnanti interessati al problema ma ho avuto anche l’impressione troppo spesso che i titoli che farebbero davvero venire la voglia di leggere ad alcuni studenti continuino a essere tenuti fuori dalla scuola.

Personalmente nelle mie classi cerco di assegnare liste di libri in continua espansione da cui gli alunni possono scegliere liberamente, di fare attività sui libri che coinvolgano altre classi, di utilizzare sempre la lettura come uno strumento che permette di soddisfare delle curiosità. Qualcosa si ottiene. Non dico che questi alunni diventeranno di sicuro dei lettori ma che grazie ai libri adesso stanno facendo un percorso di crescita: di certo leggono di più e parlano e scrivono un po’ meglio.

Io ho fatto un brutto liceo classico, un liceo di periferia, appunto; ma quando avevo quattordici anni la mia insegnante ci diede da leggere Fontamara e Il segreto di Luca di Ignazio Silone… ecco, io quei libri non li ho capiti tanto bene, ma mi hanno dato delle suggestioni… quindi mi sono chiesta: è giusto semplificare le letture? Non c’è il rischio di dire che tutti i libri sono uguali? Che il libro del vincitore di Amici è la stessa cosa di Fontamara?

Tu però eri già in prima superiore. Io sto parlando di un percorso di crescita che parta dalle elementari e continui alle medie: sono otto anni in tutto e tu in quegli otto anni devi dare la possibilità ai bambini di avvicinarsi alla lettura e dare loro gli strumenti per leggere. È un percorso duplice: da una parte le letture che scelgono loro, dall’altra quelle che scegli tu e che sono sempre un po’ più complesse. E quando arrivi alle superiori il percorso continua con la possibilità per l’alunno di continuare a scegliere da una lista fatta bene. E per letture piacevoli non intendo necessariamente Fabio Volo (che i ragazzi possono trovare da soli e facilmente in libreria). Nella lista io consiglierei letteratura per ragazzi di un certo livello che magari però è più vicina per temi e lingua al mondo degli adolescenti. Accanto a queste letture puoi ovviamente inserire anche Fontamara. La scuola deve darti l’una e l’altra possibilità perché apprezzerai Fontamara solo se sarai un lettore in grado di comprenderlo. Il problema è che spesso la scuola dà Fontamara a chi non ha alcuna preparazione per leggerlo, senza preoccuparsi di stimolare alcuna curiosità nei confronti della storia. Di solito quindi gli studenti cercano direttamente la scheda di lettura su Google e portano quella in classe come recensione oppure si convincono che leggere faccia schifo o che sia noioso. Penso poi che ci sia un equivoco sulla lettura, una parola sola che credo faccia riferimento a tre cose: in primo luogo a scuola si parla di “lettura” per indicare la capacità di leggere, uno strumento fondamentale che è doveroso fornire agli studenti; poi c’è la lettura per solo piacere, l’intrattenimento che ci danno i libri che di divertono e che dovremmo sceglierci da soli seguendo i nostri gusti e interessi; infine c’è Fontamara, la lettura che ci consegna un senso del mondo. Ma come possiamo arrivare ad apprezzare questo ultimo livello di lettura che è più impegnativa se non abbiamo curato i primi due stadi? Se non abbiamo gli strumenti per leggere o se non abbiamo sperimentato il piacere di scegliere le nostre storie preferite? Questi tre livelli a scuola vanno intrecciati con attenzione. Se questo viene fatto per i primi anni di scuola, alle superiori un ragazzo leggerà e capirà Fontamara. (Magari dirà pure che non gli è piaciuto, che preferisce John Green, ma almeno ci si sarà confrontato davvero).

Personalmente a scuola ho sperimentato l’efficacia di una serie di classici moderni e libri per ragazzi efficaci anche per i lettori in erba. Ti do qualche titolo imperdibile per le scuole medie:

L’uomo che corre, Michael G. Bauer, Giunti

Camminare, correre, volare, Sabrina Rondinelli, Edizioni EL

Il mistero del London Eye, Siobhan Dowd

Il figlio del cimitero, Neil Gaiman, Mondadori

L’autobus del brivido, Paul Van Loon, Salani

La stanza numero 13, Robert Swindells, Mondadori

Obbligo o verità?, Annika Thor, Feltrinelli

La bomba, Todd Strasser, Rizzoli

Sette minuti dopo la mezzanotte, Patrick Ness, Mondadori

Il nido, Kenneth Oppel, Rizzoli

La casa dei cani fantasma, Alan Stratton, Mondadori

I giardini degli altri, Marta Barone, Rizzoli

Le nuvole per terra, Nadia Terranova, Einaudi ragazzi

Gli invisibili, G. Del Ponte, Mondadori

Ti faccio un’ultima domanda: io tengo anche dei laboratori di scrittura, e il problema di questi laboratori, ma anche dei manoscritti che ci arrivano in redazione, è che spesso chi si iscrive non sa da dove partire per scrivere narrativa… secondo me, anche perché a scuola tutto ti insegnano a scrivere tranne che le storie… ti fanno fare il tema argomentativo, quello storico, il pezzo di giornale… ma le storie no. Secondo te, perché?

Purtroppo questo problema esiste anche con i film. I miei alunni hanno difficoltà a seguire un film fino alla fine perché di solito guardano molti video e alla narrazione lunga e continua si sono disabituati: non trovano i nessi logici tra le scene e glieli devi spiegare. Anche in questo caso direi che si nota una mancanza di lettura e di narrazione di se stessi. Se chiedi a un ragazzo delle scuole medie che cosa abbia fatto ieri lui potrebbe avere difficoltà a spiegartelo in modo coerente. Per questo di solito faccio molti esercizi di questo tipo in classe: chiedo, per esempio, come abbiano vissuto la consegna delle pagelle, e loro devono raccontarlo dall’inizio alla fine. La narrazione, anche di qualcosa di semplice e personale, è fondamentale eppure le si concede sempre meno tempo. Adesso a scuola i compiti tipici sono rappresentati dalle prove strutturate, a crocette, anche di italiano. Che forma di narrazione c’è in queste prove? Come fa uno studente ad analizzare davvero lo sviluppo di un testo se la risposta è già data e devi solo indicarla con una crocetta?

L’anello debole al solito è la scuola media: proprio la sezione che dovrebbe essere il laboratorio di scrittura che credi tu. Alle elementari la narrazione si usa ancora, perché sono ancora affascinati dalle storie e attraverso le storie le maestre insegnano ai bambini ad esprimersi.  Alle medie di solito si riferisce quello che viene studiato, la lezione di storia, la risposta giusta alla domanda ecc. Sono convinta che dovremmo osare di più.

Una cosa che ho sperimentato con una certa soddisfazione è l’uso di incipit di narrativa. Quando uso “Una mattina Tizio (e ognuno mette il suo nome), destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso…” vengono fuori dei racconti bellissimi. Ognuno di loro si sceglie un insetto che dice qualcosa di sé e ogni tanto mi sono anche nascostamente commossa. Senza saperlo ti dicono tante cose e costruiscono una narrazione coerente fino alla fine.

Torno sui racconti: secondo te quali sono gli autori che un aspirante scrittore di racconti dovrebbe leggere?

Direi che gli scrittori di racconti possono insegnare tutto sulla scrittura. Tra gli scrittori di racconti classici ho amato molto Maupassant e Poe. Porterei con me nella tomba molti americani (non solo i minimalisti): Carver ed epigoni, Salinger, poi Malamud e Yates. Un maestro del racconto quanto del romanzo è il caro vecchio Stephen King. Munro e Willis sono tra le mie scrittrici preferite di soli racconti. In Italia i primi che mi vengono in mente sono Tondelli e D’Arzo, ma Il gorgo di Fenoglio mi fa effetto a ogni lettura così come Il pianeta Trillafon e la cosa brutta di David Foster Wallace. Di solito comunque per mostrare cos’è un racconto perfetto consiglio di leggere il primo della raccolta Ruggine e ossa di Craig Davidson e tutto Trilobiti di Breece Pancake. Quello che c’è da sapere per me è quasi tutto in questi libri.

Un’ultima domanda sugli spazi e i tempi di scrittura: ti va di raccontarci dove scrivi e quando? 

Scrivo in biblioteca, il pomeriggio dopo scuola, e in qualche aula studio misericordiosamente aperta nei fine settimana. Non riesco altrove e a casa mi è impossibile concentrarmi. E poi la vista quando alzi gli occhi in cerca di ispirazione non è per niente male.