Il mio è stato per lo più un apprendistato solitario. Anche qui, si è trattato di impadronirsi di una tecnica, e di costruirsi una voce. Non ci sono ricette per questo, temo: contano per lo più l’ostinazione, la disponibilità a mettersi in discussione fin nelle virgole e una buona biblioteca. Mi sono allontanato da certi vezzi che non mi avrebbero portato da nessuna parte – una certa propensione alla parodia e al pastiche, per esempio, un mescolare un po’ meccanico cliché di generi e sottogeneri, una certa indulgenza stilistica all’eccesso baroccheggiante, una dipendenza eccessiva da atmosfere e situazioni cinematografiche… Ho scritto tanto, e con gusto, però appunto si è trattato di esercizi, da cui avrei in seguito tratto qualcosina da infilare nei romanzi successivi, ma che sono rimasti dov’era giusto che rimanessero.
Scoprire nuovi autori: lo scouting editoriale
Fra i tanti professionisti dell’editoria c’è chi i buoni libri li scova, li valorizza, cerca di farli pubblicare, assiste gli autori nel loro percorso, si fa venire buone idee spendibili sul mercato del momento. È lo scout, ruolo che può declinarsi sotto varie sfaccettature e può includere attività di editing e di consulenza editoriale. Abbiamo chiesto a Sara Meddi de La matita rossa di raccontarci in cosa consiste il suo lavoro e come è arrivata a farlo. Di seguito riportiamo per intero le sue considerazioni, che crediamo siano utili a chi vuole capire meglio di cosa si tratta e, magari, seguire la stessa strada.
Su Jane Austen e i romanzi che tutte pensano parlino del grande amore (e che invece, fondamentalmente, parlano del vil denaro)
Se lo avesse saputo, la signorina Austen, che i suoi romanzi fortemente sociali sarebbero stati trasformati in fari per tutte le donne single a caccia di un fidanzato appena decente, probabilmente se ne sarebbe rimasta buona buona nel suo cottage nell’Hampshire a suonare e ricamare (sì, era brava anche in questo).
E invece Jane Austen scriveva (secondo me, bene come nessun’altra dopo di lei) e scriveva soprattutto della sua società, della rigidità dei rapporti e dell’incomunicabilità.
Questa incomunicabilità, per quanto possa sconvolgere le affezionate lettrici, non era affatto data dall’essere orgogliosi o pieni di pregiudizi, simpatici o antipatici, ma dall’avere o meno soldi.
Ecco, non voglio dire che Jane Austen scrivesse solo del vile denaro, ma in buona parte sì. Parlava proprio di soldi.
Intervista a Eraldo Baldini: il gotico rurale e altre storie
A me, come ti dicevo, piace molto questa tua capacità di attingere al mondo rurale e di periferia per costruire storie. Non hai scritto solo horror… ma in generale la narrativa italiana non parla di storie di provincia… o almeno non si è mai costruito un immaginario rurale forte, penso anche a Stephen King e al Maine…
Mah, nel mondo anglosassone c’è sempre stata un’attenzione al mondo rurale e alle piccole comunità, sia attraverso la narrativa maggiore, penso a Steinbeck, sia a una narrativa di genere partita già nell’Ottocento e proseguita nel Novecento, penso a Conan Doyle, ad Arthur Machen, ad Ambrose Bierce, a Shirley Jackson, a Thomas Tryon, a Ray Bradbury, a Dan Simmons e a molti altri, fino ad arrivare appunto a Stephen King.
Nella narrativa anglosassone esiste questa tradizione, in quella italiana no, o in scarsa misura. Aveva ragione Oreste del Buono quando qualche decennio fa sulla Stampa scriveva stupendosi di questa cosa. Scriveva che la popolazione italiana, con un background di storie e di folklore così ricco, di culture popolari così interessanti, chissà perché non aveva partorito autori che partissero proprio da quel background per fare narrativa.
Appunti su “Cinquanta sfumature di grigio” e sul malinteso del romanzo
Sul fenomeno letterario (e cinematografico) del momento, Cinquanta sfumature di grigio, sono stati scritti contributi critici interessanti, come questo di Paolo Zardi, e altri che ripetono l’ovvio: Cinquanta sfumature di grigio è, infatti, evidentemente brutto. “Evidentemente” in senso letterale: i personaggi sono meno che stereotipi, il contesto è malamente abbozzato e la scrittura è dilettantesca.
Tutti questi commenti però, da quello più interessante a quello più scontato, partono da un presupposto errato: quello che Cinquanta sfumature sia un romanzo e che vada formalmente giudicato come tale. Cinquanta sfumature di grigio è al tempo stesso una fan fiction 2.0 e un Harmony 0.5. Come quasi tutti sanno, il libro e i relativi seguiti, sono nati come una fan fiction, seguitissima, ispirata alla saga di Twilight.
Intervista a Giusi Marchetta: le radici della scrittura (e della lettura)
Tu scrivi racconti – che è una cosa molto diversa dallo scrivere romanzi, anche se di romanzi ne hai scritto uno – e quindi perché per te funziona meglio il racconto del romanzo?
Io lo preferisco anche da lettrice. Un racconto ben fatto per me è un capolavoro, una cosa che ti porti dietro, è una piccola esplosione. Da scrittrice però, credo di preferirlo anche per una questione di ansia. Di solito inizio a scrivere dalla fine: so già dove voglio arrivare e so che costruirò tutto quello che c’è prima in modo che la conclusione sia il più efficace possibile.
Intervista a Laura Pugno
Laura, tu scrivi cose molto diverse: poesie, racconti, romanzi. Mi sono sempre sembrate cose inconciliabili tra di loro. Mi chiedevo: con cosa hai iniziato a scrivere? Quando eri più giovane, hai iniziato dalle poesie o dalla prosa? Come si sono innestate queste forme di scrittura l’una sull’altra?
Ho iniziato scrivendo poesia. Faccio parte di quella schiera di poeti che ha iniziato scrivendo poesia nell’infanzia, senza, ovviamente, nessuna consapevolezza, e via via in modo sempre più lucido e duraturo nell’adolescenza, intorno ai vent’anni, fino a trovare una mia identità nel dialogo e nel confronto con la tradizione prima e con i poeti della mia generazione poi. Ho sempre considerato la poesia la mia prima ricerca e la mia prima disciplina e per molti anni, fino ai 27-28 anni, sono stata convinta che avrei scritto solo poesia.